RECENSIONE: "PER LA CORONA D'ACCIAIO" DI MARCO RUBBOLI

RECENSIONE
Marco Rubboli, Per la corona d’acciaio, Watson Edizioni
Recensione a cura di Caterina Franciosi


L’AUTORE
Marco Rubboli (Cassino, 1969) è fondatore della Sala d’Arme Achille Marozzo, nonché uno dei maggiori riscopritori delle arti marziali storiche europee nella nostra epoca. Ha al suo attivo molte pubblicazioni sulla scherma antica, medievale e rinascimentale, è un abile sperimentatore delle arti di combattimento dell’epoca classica greca e romana e vanta parecchi titoli agonistici di scherma storica a livello nazionale. Per lui, il fantasy è un mezzo per esplorare le dinamiche più profonde del potere e dell’animo umano. 
(Da Per la corona d’acciaio

LA TRAMA
Vindice Maravoy è destinato a diventare un fiero Conte del Regno di Gallesse, a ereditare il segreto millenario custodito dalla sua casata sotto le mura di Castelbrun. Eppure non avrà nulla di tutto questo. I Maravoy hanno tentato di ribellarsi all’impero Dosthan e hanno fallito, perdendo tutto: non hanno più terre né un titolo. Ora Vindice è in esilio a Malia, e milita come mercenario nella compagnia del padre.
Malia, una terra antica e bellissima, erede della più grande civiltà che il mondo abbia conosciuto, ma la penisola è dilaniata da guerre intestine, oppressa da una monarchia debole e corrotta.
Una nuova invasione, da parte della stesso impero che gli ha portato via tutto, incombe dal Nord. Il crollo di Malia sembra inevitabile. Ma Vindice è pronto a tutto per evitare che la sua patria di adozione venga conquistata. Perfino a mettere da parte i valori che gli sono stati insegnati.
(Da Per la corona d’acciaio)

Mappa di Matilde Viggiani

LA RECENSIONE
“Tradimento! Il nemico è dentro le mura!”
E poi rumore di lotta, e di lame che impattano.
Per gli Dei, che cosa stava succedendo? E chi era il nemico?
Il grido fece accapponare la pelle a Lyonel Maravoy, come un nero presentimento di morte e di rovina.
L’Erede di Castelbrun corse alla finestra del salone in cui si trovava, al primo piano. Scrutò nella corte grande del castello, laggiù in basso. Alcuni alabardieri e balestrieri Dosthan erano sbucati dai carri che trasportavano le vivande. Ma molti di più stavano irrompendo all’interno del maniero, adesso. A frotte.
Un numero infinito, attraverso il portone spalancato.
Lottavano con le guardie alle porte. I soldati di Castelbrun non riuscivano a riprendere il controllo del barbacane. Al contrario, venivano travolti dall’impeto dei nemici sempre più numerosi.
Lyonel deglutì.
[…]

Così, con questo perfetto inizio in medias res, l’autore ci prende e ci trascina nel bel mezzo della battaglia che sta infuriando nel regno di Gallesse e con la quale si apre il romanzo. Lo stile di questa prima parte ci accompagnerà lungo tutto il nostro viaggio: le frasi brevi, i periodi spezzati e a volte quasi dolorosi riescono a trasportarci proprio dentro alla storia, come se anche noi fossimo lì insieme ai personaggi. La bravura dell’autore, soprannominato non a caso lo “scrittore guerriero”, sta nell’essere riuscito a riportare su carta tutte le esperienze vissute sulla propria pelle: l’andare a cavallo, le difficoltà quotidiane negli accampamenti, le armature che arrugginiscono per via della troppa pioggia sono solo alcune delle scene di vita quotidiana di cui possiamo essere testimoni grazie alla “sua” compagnia di ventura. I combattimenti e le battaglie sono descritti fin nei minimi dettagli, sia per l’uso di tecnicismi del settore della scherma, dell’equipaggiamento e dell’ attrezzatura militare del periodo sia per quanto riguarda le strategie di guerra e i movimenti delle truppe. È questo, a mio avviso, ciò che rende questo romanzo unico nel suo genere e lo differenzia da tutti gli altri.
L’altra particolarità del romanzo, quella che è riuscita a tenermi legata al libro fino all’ultimissima pagina, è la sua atmosfera epica, che è stata in grado di trasportarmi indietro nel tempo fino alle opere di Omero e di Virgilio. Numerosi sono gli epiteti provenienti dal mondo classico (come l’alba dalle dita rosate) o i richiami a edifici storici (ad esempio, il tempio di Giove Ottimo Massimo). Ovviamente, questi riferimenti hanno un contesto preciso: la terra di Malia altro non è che una sorta di Italia a cavallo fra il 1400 e il 1500, a cavallo cioè fra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, che non ha però visto l’avvento e l’affermarsi della religione cristiana. Malia è governata da una monarchia debole e corrotta, che causa non pochi scontri, anche per i più futili dei motivi, una monarchia molto lontana dall’antico splendore che l’Impero Mitoien era riuscito a portare in quella terra. La corona d’acciaio è il simbolo del potere (come l’unico anello di Tolkien) e apprendiamo fin da subito che l’attuale regnante, Re Tiberio IV Alesiade, non è la persona giusta per portarla. Soprattutto, non è affatto in grado di affrontare la minaccia che incombe da Nord, ed è questo a preoccupare maggiormente il protagonista, il giovane Capitano mercenario Vengeator “Vindice” Malavoy, voce narrante del romanzo.
Cresciuto in terra maliana, Vindice sente molto lontani i valori a cui suo padre Lyonel è ancora così legato. Il suo ruolo di erede di Castelbrun gli va stretto e il giovane non esiterà nemmeno per un attimo a difendere la sua patria d’adozione anche mettendo a rischio la propria vita. Il suo destino, il suo futuro sono a Malia: gli amici, l’amore, i nobili principi, tutto sembra portarlo sempre più lontano dall’utopico sogno del padre. Durante lo svolgersi degli eventi, ci accorgiamo di come il personaggio di Vindice racchiuda al suo interno i tratti dell’eroe e dell’anti-eroe: innamorato di Aurora di Nocchiero, giovane e abile mercantessa, e sempre pronto a difendere lei e i suoi compagni di battaglia, Vindice si ritroverà però costretto a tradire i suoi principi in nome di un bene superiore e della salvezza della sua terra, con azioni che lo segneranno per sempre e per le quali difficilmente potrà perdonarsi.
Un Principe machiavellico, insomma, destinato in prima persona a fronteggiare grandi poteri, corruzione e sacrifici, ma sempre – ricordiamolo – con il solo aiuto delle proprie forze. Scordatevi interventi divini e le affascinanti maghe di Omero: in Per la corona d’acciaio ognuno deve cavarsela da solo, nel bene e nel male. Abilità, tattiche militari, strategie, forza d’animo, onore, amore, amicizia, cameratismo, coraggio e anche una buona dose di pazzia sono gli elementi chiave di questa storia.

Un’ultima nota.
Come spesso mi succede, il mio personaggio preferito non è il protagonista, ma un comprimario e, in questo caso, l’altra voce narrante del romanzo: la giovane assassina Luce, che entra relativamente poco in contatto con Vindice ma che detiene uno dei ruoli cardine per lo svolgersi degli eventi.
Perché è la mia preferita? Luce vive di notte, nell’oscurità, e trovo che il suo nome la renda una specie di “ossimoro vivente”. Come non rimanere affascinati già solo da questo?




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