SEGNALAZIONE: "MEMORIE DI UN COLONNELLO DI SOLDATINI" DI ALESSANDRO FORLANI

SEGNALAZIONE
Alessandro Forlani, Memorie di un colonnello di soldatini, Independently Published


L'AUTORE
Alessandro Forlani insegna sceneggiatura all'Accademia di Belle Arti di Macerata e Scuola Comics Pescara. Premio Urania 2011 con il romanzo "I senza tempo", vincitore e finalista di altri premi di narrativa di genere (Circo Massimo 2011, Kipple 2012, Robot e Stella Doppia 2013) pubblica racconti e romanzi fantasy, dell'orrore e di fantascienza ("Tristano"; "Qui si va a vapore o si muore"; "All'Inferno, Savoia!") e partecipa a diverse antologie ("Orco Nero"; "Cerchio Capovolto"; "Ucronie Impure"; "Deinos"; "Kataris"; "Idropunk"; "L'Ennesimo Libro di Fantascienza"; "50 Sfumature di Sci-fi"). Vincitore del Premio Stella Doppia Urania/Fantascienza.com 2013.

LA TRAMA
Italia, 2027. Lo storytelling è diventato una pratica quotidiana: la continua e immaginosa narrazione di ogni fatto, di sé stessi, il proprio intimo, è il mestiere di "inging" professionisti a cui i clienti si rivolgono per raccontare - e vivere le proprie vite - in modi interessanti ed eccitanti. Tale pratica ha allontanato le persone dalla realtà, le ha sospese in esistenze allucinate e soggettivi intervalli di spazio-tempo. Un tessuto inconsistente di forme e di parole. Un limbo. Un sogno. Un incubo. Un delirio. Il mondo sta finendo, sta finendo di finire. Un professore universitario con l’hobby dei wargame, a capo di un movimento clandestino, è deciso ad attuare uno strano "golpe" per salvare la società e il paese dal disastro. Ma ha bisogno del supporto mediatico di una inging di talento. Arianna è la migliore: un’influencer che ha elevato lo storytelling a vera forma d’arte. Un romanzo di fantascienza distopica, new weird e urban fantasy. Una satira sociale, un’accusa. Un romanzo che insinua il dubbio che tutto quello che ti circonda è la storia di qualcun altro, ma non è una storia vera. Potrebbe essere il tuo romanzo, se non fosse che anche tu, forse, non esisti.

ESTRATTO

CAPITOLO 2

L’episodio era accaduto l’anno prima del suo congedo, mentre lui - fatti i suoi conti - stava pensando di abbandonare. Ci pensava già da tempo, da parecchio: dieci anni. Le graduatorie gli prospettavano un posto a Lecce, a Venezia o chissà dove, ma restava sempre il quinto, e le sedi sempre quattro.

Veleggiava ai cinquant’anni: ne valeva più la pena? E attendeva già da venti che il falegname dei giorni, i meriti e il lavoro gli fabbricasse una vera cattedra: non la avrebbe avuta mai.
Temeva anche una malattia. Diventava ipocondriaco.
Era il pigro dopopranzo precedente le lezioni: alle quattordici riceveva - come era scritto su una bacheca. Con il cappotto e la sciarpa indosso attendeva nel suo studio. Col cappello sulla testa, ché mi viene un’emicrania. La caldaia «forse è spenta, forse è guasta: sa, è così» - sospirava un’ausilaria passando il mocio sul pavimento; il vetro, alla finestra, era vecchio, era sottile; le dita gelide di dicembre tamburellavano sulle pareti. In un angolo la muffa.
Il ritaglio di cortile e porticato settecentesco che scorgeva da seduto, senza muoversi, ché è freddo, era abbruttito di travi grigie, tubi e reti di impalcatura.
"Noi siamo le colonne".
Che crollano; pensò. 
Di sette incarichi da contrattista gliene restava soltanto uno: non aveva dato torto agli istituti e il ministero quando decisero di ridurre - e in seguito abolire - le troppe cattedre e insegnamenti che complicavano laurearsi; le semiotiche; i linguaggi; le discipline e le storia di. Per companatico dei dottorandi e per placebo degli assistenti; per i crediti, le tasse e l’impressione sugli studenti. Il suo essere docente; professore; il "lei", il rispetto si riducevano a trenta ore di altisonante drammaturgia.
Su Wikipedia ci stai più tempo.
Ma Wikipedia non è attendibile.
Un docente è attendibile, al di fuori di qui?
Al di là dei tetti antichi e delle tegole dell’ateneo, del silenzio di sapere, del timore di affermare, si sfilacciava una società che preferiva l’altra versione dei fatti - quale che essa fosse: purché «ma ho letto che»; purché «dicono che»; purché «ho sentito che».
Purché «secondo me».
Che disciplina, quale argomento valeva ancora di fronte a me?
Le solenni assurdità della seggiola e del banco, l’ora, l’aula, voto ed attestato ottundevano gli studenti ad ascoltarlo per qualche ora: anche Dio, da due millenni, nelle chiese opprime gente. Perché è inteso che sia lì; che si debba entrare chini. Un’abitudine al timore sacro, che non è la fede vera. 
Ma in questo mondo che si ingrandiva, si complicava, moltiplicava; si frammentava nei "se" e nei "forse" tutti probabili benché impossibili, immensi e spaventosi, le persone si I.solavano in solitudini digitali raccomandandosi a un altro dio: tuttavia senza dentale. Gli studenti abbandonavano, in effetti: questo è un dato; le città universitarie - tristi, sole, in menopausa - si recidevano le vene ai polsi immerse in vasche di fasti tiepidi.
Una volta, un altro tempo, un’altra Italia - la sua da bimbo - c’erano state sommosse vere, il ˈSettanta, la Pantera. Decenni d’epica!, sospirò. Ne accennava agli studenti: ma ne restavano indifferenti. Non hanno un’epica. Non ce n’è più. Il sistema li ha storditi. Mentre a noi Capitan Harlock incitava a ribellarci.
Prima o poi, prima che poi, da una distanza pari a un’asta da selfie, un ventenne avrebbe visto e compreso che cose stupide e senza senso sono le classi, le quattro mura, la campanella ed un professore; avrebbe addotto un secondo me: quali argomenti avrebbero potuto opporgli? Non avevano parole. Non ne avevano di vere.
Sta per succedere. Sta succedendo. E lui non avrebbe voluto esserci.
Però gli conveniva, puntellare le rovine: se non fossero rovine, io, che cosa sosterrei? Un’opinione. Com’è per tutti. I miei frammenti tra questi sassi.
Aveva anche iniziato a crederci, che avessero un valore.
I valori.
I miti grandi!; come lagna Max Pezzali.
I suoi film. Le sue letture. I suoi cult. Fondamentali. I suoi frammenti degli anni eroici. Anni ˈOttanta. Anni ˈNovanta. Ogni decennio risolto in nulla cristallizza in un’icona: nelle mani di una bimba Nefertiti è come Barbie; solo i rimproveri di un barbogio le danno torto: «non è una bambola!»
E si disse che quel giorno, nella lezione sull’übermensch, avrebbe teso un arco del personaggio da Lorenzo da Ponte agli eroi di Stan Lee.
«La leggete, voi, la Marvel…», aveva chiesto la volta prima.
Nella classe il silenzio. 
Sospirò. Continuò:
«Bisogna leggerli, i supereroi, prima o poi nella vita!»; gesticolò delle loro gesta, sentì le pagine sui polpastrelli; la carta ruvida, patinata, sputò l’anàtema contro i film; «bisogna leggere gli originali.»
Quei valori ormai perduti.
Devo parlare di queste cose: tirò col naso, rabbrividì; devo parlare di queste cose ripeté contro il soffitto, la parete e lo scrittoio dello studiolo che gli sembrava rimpicciolire. Di tempi più civili.
Doveva attendere tre quarti d’ora. RICEVIMENTO. MERCOLEDÌ. Obbligato dal contratto. Ma non veniva nessuno, mai. Ma doveva essere . Ignorò i dodici gradi nella stanza e frugò tra le sue cose. Nel cassetto. Nello zaino. Per pensarsi indaffarato. Per mostrarsi un professore alla bidella che lucidava.
Affondò una mano in tasca e sorrise degli oggettini che ci trovò, una prova dei suoi hobby nella giacca da docente. Meglio nasconderli. Li lasciò lì. Tuttavia lo confortò: una prova di sé stesso al sé stesso che affondava, in quel luogo che franava, dove svaniva da due decenni.
C’è qui qualcosa che è ancora me.
C’era da sempre, che ricordava.
Il suo hobby da bambino.
Da ragazzo.
Mi ha cresciuto.
Da quel mondo più sensato.
Erano anni dall’A alla Z.
C’era qualcosa per cui resistere ed ogni sera tornare a casa.
Annotò su un quadernino le sue spese di trasferta, le sommò alle precedenti: le sottrasse al suo compenso per quell’anno accademico.
Una cifra in negativo.
Stava pagando per lavorare.
Come loro, i suoi studenti, corrispondevano due rate l’anno per il diritto allo studio. Le impalcature sopra la testa. Trenta ore di sapere. Bollini-credito su quei libretti come sconto & lode al supermarket.
Si avvilì.
Già lo sapeva:
Ma vuoi mettere il prestigio?!; quella parola che suo papà aveva detto tre volte in vita sua: l’ultima volta - con gli occhi accesi - quando gli disse del primo incarico da contrattista.
Ma ai tempi di suo padre i like non esistevano. Non esistevano neppure ai suoi; quei tempi molto sani.
Toccò la tasca con gli oggettini.
Era indecente, però è così. I ragazzi e le ragazze, lì di fuori, dentro sé, sotto i portici e negli atrii e l’aula magna dei social media ottenevano big like e abbandonavano gli studi. A nessuno, tra i corsisti interessava di quel prestigio. Non lo sapevano, non lo scambiavano.
Grattò la tasca con gli oggettini.
C’era un motivo per continuare?
Uno studente bussò alla porta:
«Posso entrare, professore?»
Lui lo accolse:
«Prego, sieda.»
Il ragazzo entrò volgendogli le spalle, e protendendo il telefono di fronte a sé a scattare un totale dello studio e di entrambi.
«… prego, sieda…»
«Aspetti un attimo», quello bofonchiò; digitò qualche parola: «studiareabbesting; ricevimenting; universiting; firmaremoduling…. Fatto. Grazie. Scusi, prof.»
Se ne andò. Chiuse la porta. Gli cadde a terra un modulo prestampato su cui lui lesse il suo nome e il codice del suo corso.
«… ma…»
Un po’ basito raccolse il foglio. Lesse:
«Lo studente Teseo Teti… corso matricola taluno e l’altra… con la presente richiede… POSSF… lì; firmato; il Direttore; segreteria. Eccone un altro», si rassegnò.
Piano Offerta Sostitutiva Social-Formativa.
Lo incoraggiavano i manifesti negli uffici e i corridoi.

POSTA UNA TUA STORY CON UN PROF!
POSTA UNA TUA STORY SULL’UNI!
SE FA LIKE, SE CONDIVIDI
SOSTITUISCE UN ESAME DA DIECI CREDITI!

E il logo azzurro del Ministero dell’Istruzione, sotto, era il primo di quei like.
Il ministero; lui scrollò le spalle: dell’istruzione; inghiottì rabbioso.
Però era giusto. Però è così. Ché ormai era normale. Che voglia avrebbero di infreddolirsi in un’aula, curvi su una sedia, immobili su un banco; bruciarsi gli occhi di slide e video e intirizzirsi le dita nude su un notes a elencare nomi morti? Non hanno follower: i morti non ne hanno. Sono argomenti che non fatturano, sono temi senza view. «Non mi interessano»: inoppugnabile; «compilo il modulo. Per me è così.»
Mênin aeide.
Per mê, nin aeide.
Loro esami di story; si incupì, scosse la testa: perché una storia non l’hanno più.
Si indignò:
di questo passo…
Che è banale, lo sapeva, ma che ormai c’era cascato. Sperava porsi questa domanda tra non meno di dieci anni; tra la canizie, l’"oplà", i cantieri e le perdite di urina: se la poneva già adesso; gli prese un fregolo di agire e dire.
Gli oggettini, nella tasca, gli pesarono di più.
Rincorse lo studente, lo fermò che se ne andava:
«Scusi, Teti: ha perso questo. Per me d’accordo, ci mancherebbe: è un suo diritto non seguire il mio corso. POSSF: sono informato. È tutto in regola, se a lei sta bene. Ma almeno il modulo non se lo scordi, ché se no in segreteria…»
«Grazie, prof. Non serve più. Sono appena laureating.»
«Sarebbe a dire?»
«Ho un selfie con lei; Cominazzini, Catani; ho un selfie con la Torresi: ho passato i vostri esami.»
«Non li ha manco sostenuti.»
«Prof, ma dài: li ho già postati. Vede qui?»; gli mostrò l’iPhone con la schermata di Facebook e i GRANDISSSSSSIMOOO e DOTTOREEE e COMPLIMENTI ed i VAI COSÌ!!!; la sua faccia e quella dei colleghi; «trenta e loding: questo ho scritto, ché me lo merito, credo io. Quaranta crediti: sono a posto. Centodieci/centodiecing. L’ho condiviso, è successo. Fine. Per me è vero, quindi è vero. Mi frega un cazzo se per lei no. Scusi prof, non intendevo.»
«Ma è sicuro che…»
«Prof, ho gli screenshot.»
«… laureating…»
«Grazie, prof.»
Lo abbracciò, si strinsero la mano e se ne andò.
Lui restò stordito in inconfutabili capogiri: doveva essere la verità; no: fu certo che lo fosse. Senza rivolgersi al direttore, al Magnifico, senza rileggere regolamenti; nel purgatorio dei suoi vent’anni universitari aprì gli occhi alla realtà e trovò ch’era così. Che adesso era così.
Una bidella gli afferrò il braccio:
«È molto pallido, professore… si sente bene? ODDIO, COS’HA?!»
Perché vibrava tutto; gli sembrò tutto offuscato?
Gli scivolarono dalle tasche il dado e un soldatino.
L’episodio era accaduto nel duemilaventicinque.


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